DEMOCRAT
POST CHICAGO
UNITÀ
E MULTIAMERICA

Ricchissima di partecipanti, oratori, film, e celebrità, la Convenzione Democratica di Chicago ha offerto materiale bastante per dozzine di analisi. E dopo averla seguita minuto per minuto durante quattro lunghissime serate, ne propongo qui la mia, in sei punti. Il primo è che la Convenzione ha dimostrato come il soprannome GOP (Grand Old Party), affibbiato al Partito Repubblicano nel 1870 per aver salvato il paese dalla scissione sia oggi più appropriato al Partito Democratico, unito per salvare il paese dall’autoritarismo di Trump. Uniti come mai prima, i Democratici hanno sconfitto il fantasma del ’68 e delle divisioni interne che allora lo dilaniarono. La storia delle manifestazioni antiguerra (il Vietnam allora, Gaza ora) non si è ripetuta a Chicago né come tragedia né come farsa, deludendo le aspettative di Hamas. Sia Alexandria Ocasio Cortez (AOC) che Bernie Sanders, leaders della sinistra, hanno liquidato la questione controversa dell’appoggio americano ad Israele con poche battute, ricordando che l’amministrazione Biden si sta facendo in quattro per ottenere il cessate il fuoco. Ma ancora più sorprendente è stata Ilan Ohmar, rappresentate del Minnesota Somalo-Americana e dalla parte dei propalestinesi, che si è seduta tra le poche dozzine di manifestanti fuori la Convenzione, ma ha passato molto più tempo dentro ad applaudire le proposte di politica interna.



Il secondo punto in parte spiega come si sia riusciti ad ottenere questa unità. La leadership nazionale emersa con orgoglio e capacità strategica ha il volto multirazziale e multiculturale dell’America, ma con i neri in prima fila. E non si tratta solo di Kamala Harris e dei suoi famosi padrini Barack e Michelle Obama, ma di tutti i membri neri del Congresso, i rappresentanti e i delegati degli stati, gli attivisti, e gli artisti, alternatisi sul podio per esprimere non le proprie rimostranze e rivendicazioni, ma un progetto per l’America. Da minoranza i neri sono diventati, usando il concetto di Karl Marx, gruppo universale. E da questa trasformazione non credo si possa tornare indietro. Tra i democratici l’accettazione di questa nuova realtà è tangibile. Ne avevo avuto un’anticipazione il giorno dopo l’annuncio del passaggio del testimone da Biden ad Harris, quando in una chiamata estemporanea via zoom più di centomila donne bianche da tutta l’America si sono schierate dietro la leadership delle loro sorelle nere. Sembrano lontane le immagini degli atleti e degli attivisti neri che si inginocchiavano quando suonava l’inno nazionale, non per rispetto ma per protesta contro il razzismo. Adesso sono loro a cantare l’inno nazionale a testa alta. Fanno pensare a cosa disse il poeta Allen Ginsberg a proposito del movimento LGBT durante la rivolta di Stonewall a New York nel giugno del 1969: “Quei ragazzi sono così belli… hanno perso quello sguardo ferito che avevano tutti i finocchi (sic) dieci anni fa”.



E questo è il terzo punto. Il patriottismo è accettato e celebrato dal Partito, anzi rivendicato come democratico per salvarlo dall’appropriazione indebita dei repubblicani. L’intera Convenzione, più di ventimila persone, si è spesso lanciata nel coro USA! USA! Nel sostegno alla politica estera internazionalista di Biden è implicita l’idea che la sottende: l’America è la nazione più forte del mondo e indispensabile alla democrazia e all’ordine globale. Nel sostegno alla politica interna, è implicita l’idea che il governo deve facilitare la realizzazione del sogno americano di mobilità sociale, con la piccola revisione articolata dalla poetessa Amanda Gorman: “Il sogno americano non esiste se non è la sfida a sognare insieme.” Il quarto punto è l’idea generale della campagna, tema di reaganiana memoria: la gioia. È stato Tim Walz a parlare di gioia per primo, ma nella Convenzione il senatore della Georgia Raphael Warnock, non a caso un pastore Battista, ha elaborato il concetto, e altri l’hanno poi seguito. “Alla sera sopraggiunge il pianto e al mattino ecco la gioia,” ha detto Warnock, citando il Salmo di Davide numero 30, canto per la festa di dedicazione del Tempio ma usato anche come ringraziamento a Dio dopo un pericolo mortale. Niente di speciale al proposito, perché l’oratoria politica americana è sempre piena di riferimenti biblici. Ma questi versi del Salmo ricordano molto da vicino lo slogan della campagna di Reagan nel 1984, - “è di nuovo mattino in America,” - lanciato dopo il disastroso risultato alle legislative del 1982 che consegnò il Congresso ai Democratici, quando il tasso di approvazione del presidente era sceso a minimi storici.



Reagan stravinse contro Mondale, e il suo video tutto positivo “Morning in America”, considerato lo spot pubblicitario di maggior successo nella storia, fece la parte del leone nella vittoria. Nel 1988, quando in Chile Pinochet propose un referendum sulla sua persona, la campagna del No, raccontata brillantemente dal film “No” di Pablo Larrain , mise da parte la narrazione del fascismo, delle torture e dei desaparecidos. Si concentrò invece sulla gioia, mimando il video reaganiano di famiglie e natura felici nella soffusa luce del mattino, la stessa luce del magico film “The Natural.” Stravinse. La logica di questa strategia è che un messaggio negativo spaventa e smobilita gli elettori, uno positivo li attrae ai messaggeri di buone notizie. Non sarà la sola chiave della vittoria questo novembre, ma è un buon inizio.

Il quinto punto è la riformulazione del diritto all’aborto come questione di salute. Si sono alternate sul podio alcune donne e anche una coppia, esempi viventi per fortuna, di come il bando assoluto dell’aborto voluto dai repubblicani, ed effettivo in alcuni stati da loro governati, porti al rifiuto della cura anche se la vita della madre è a rischio. Porta anche alla disperazione delle bambine stuprate da membri della famiglia e poi forzate a condurre a compimento una gravidanza pericolosa per loro sia fisicamente che psicologicamente.



Non è la sola riformulazione dell’aborto che ne fa oggi una questione accettata dall’85% degli americani e una delle chiavi della vittoria questo prossimo novembre. Allo slogan femminista, “il corpo è mio e decido io,” si è unito lo slogan dei maschi, articolato da Tim Walz, “it’s none of your damn business”, o non sono affari vostri. Questo slogan ha un potere di attrazione più ampio, ed è strategicamente importante. Mentre è ovvio che le donne si stanno mobilitando a migliaia per una vittoria della Harris, lo stesso non si può dire dei maschi. In un sondaggio del New York Times/Siena condotto questo mese in sei stati chiave per le elezioni (Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, Pennsylvania and Wisconsin), il 67% delle donne tra i 18 e i 29 anni dicono che voteranno per la Harris, e il 29% per Trump. Ma il 53% dei maschi nello stesso gruppo di età dice che voterà per Trump, e il 40% per la Harris. Nei gruppi di età più anziani la differenza tra i generi non è così grande. Il New York Times propone alcune spiegazioni, basate su interviste con giovani maschi, esperti, e fondazioni politiche. La questione fondamentale sembra essere una: i vecchi copioni di comportamento maschile non funzionano più e quelli nuovi non ancora, quindi il messaggio chiaramente machista e misogino di Trump offre un rifugio e una salvezza ad un’identità maschile che si sente sotto attacco.



Sembra ragionevole? Direi di no. Secondo i sondaggi, i maschi sotto i trent’anni preferivano Trump a Biden per 11 punti, oggi lo preferiscono alla Harris per 13. La differenza non è grande. Eppure, Biden non svalutava la mascolinità, ne offriva un modello positivo, quello empatico del protettore. È lo stesso che gli elettori di Trump dicono di voler seguire se non fossero impediti dalla crisi economica e dalla svalutazione del loro essere maschi. Sempre il New York Times cita un giovane ventenne che lavora in un negozio di pneumatici a Las Vegas e si lamenta che la società americana “no longer lets boys be boys,” non permette più ai maschi di fare i maschi, e oggi essere uomo è più difficile che nel passato. Non è chiaro cosa voglia dire. Se i giovani uomini rivendicano il modello tradizionale di mascolinità eccone il modello positivo del democratico Tim Walz, lavoratore onesto, insegnante, militare, allenatore di football, marito e padre affettuoso. Se preferiscono il modello di chi dichiara bancarotta a raffica, froda il fisco, falsifica i suoi conti e viene condannato per questo, ottiene l’immunità da qualsiasi crimine da una Corte Suprema da lui costruita, divorzia tre volte, è accusato di molestie sessuali da più di 25 donne e si vanta apertamente del suo comportamento aggressivo, come quando disse, “puoi fare tutto… afferrarle per la vagina, tutto,” allora il loro uomo e presidente è Donald Trump. Ma allora, dicano apertamente che tipo di “boy” vogliono essere.

*Anna Di Lellio insegna politica internazionale alla New York University. Da trent'anni segue le elezioni presidenziali americane e partecipa alle campagne del candidato democratico nelle attività di porta a porta.

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