I DEMOCRAT
DI MASSA
E L'AMERICA
ILLIBERALE

Questa domenica ho fatto il mio secondo porta a porta per il candidato democratico al Congresso Josh Riley nel diciannovesimo collegio elettorale di New York, dove quella è la competizione che conta, dato che Kamala Harris ha già in tasca lo stato. Con altre due signore dai capelli bianchi ho ricevuto i miei ordini di marcia da Victoria, giovanissima e bravissima coordinatrice del partito a Chatham, cittadina di quattromila persone. Victoria mi ha detto che si occupa di politica da sei anni, cioè da quando non aveva ancora il diritto al voto, dato che oggi ha 22 anni. Si vede che la politica è come la musica, devi cominciare da piccolo per diventare un bravo professionista.

La mia vicina di casa mi aveva parlato di Elliott, coordinatore democratico con base nell’ufficio di Hudson, cittadina di seimila persone a 20 km da Chatham, che chiedeva volontari per domenica. Se il partito è organizzato così capillarmente, mi dico, siamo messi bene. In questo lungo fine settimana che include lunedì, Festa del Lavoro, si apre ufficialmente la campagna elettorale. Dibattiti, comizi e interviste sono già in corso da tempo, ma in questi giorni comincia a tutta forza quello che si chiama il “ground game,” la competizione sul territorio. È arrivato il momento di contare le proprie truppe, perché gli elettori a questo punto sanno già per chi votare. Ho sempre pensato che chi si presenta come indeciso in una elezione come questa lo fa o perché si vergogna di dichiarare il proprio voto o perché vuole essere intervistato alla TV. E infatti non ha mai nulla da dire che sia diverso da quella serie di frasi fatte che vengono rigurgitate dai commentatori: non possiamo fidarci di Kamala Harris perché non spiega i suoi voltafaccia sull’immigrazione e sulla green economy, Tim Walz mente, Trump dice cose sgradevoli ma è più bravo sull’economia, il problema più importante è l’inflazione, il partito democratico non parla al “forgotten man,” l’uomo dimenticato, ecc. Questo non è il momento di discutere con questi elettori vaghi (e neanche di dare retta alle banalità dei commentatori), ma di ripulire le liste elettorali per conoscere esattamente chi voterà per i democratici. Serve saperlo per i sondaggi interni, che sono quelli che contano, e per assicurarsi che vadano tutti a votare il 5 novembre.



Due politologi, Daniel Schlozman della Johns Hopkins, e Sam Rosenfeld della Colgate University, hanno appena pubblicato per la Princeton University Press "The Hollow Parties" (I partiti vuoti), dove lamentano che i partiti americani non sono le organizzazioni di massa che dovrebbero essere ma gusci vuoti distanti dalla società civile, polarizzati e impegnati solo in una lotta per il potere. Sospetto che i due politologi stiano rincorrendo la chimera del partito democratico di massa, mai esistito negli USA come esistette invece in Europa con le socialdemocrazie del secolo scorso. In Italia si cominciò a parlare di crisi del partito di massa nel 1979. Fu una discussione piuttosto interna al Partito Comunista, e al Centro della Riforma dello Stato organizzammo un convegno sul tema sotto lo sguardo un po' scettico ma interessato di Pietro Ingrao. Tutti sanno come è andata a finire.

Dall’esperienza passata della campagna di Barak Obama e da questa corrente di Kamala Harris sembra che il partito democratico sia invece vivo e vegeto e non solo come strumento di lotta per il potere. Oggi ha dimostrato non soltanto di poter contare su una leadership fenomenale, da Nancy Pelosi ad altri membri del Congresso, senatori, governatori, attivisti, e direi anche Joe Biden e Kamala Harris, ma anche di saper mettere in piedi una macchina elettorale ricca di volontari. Schlozman e Rosenfeld ne dovrebbero essere contenti, perché il loro modello per uscire dalla crisi dei partiti è la macchina elettorale permanente costruita in Nevada dal senatore Harry Reid, deceduto nel 2021 ma non prima di aver decuplicato e professionalizzato lo staff del partito democratico nel suo stato. Insieme al sindacato dei lavoratori degli alberghi a Las Vegas, UNITE HERE Local 226, Culinary Workers Union, la Reid Machine, la Macchina di Reid, come viene chiamata, costituisce la forza progressista che ha portato a diverse vittorie democratiche in uno stato che tradizionalmente non lo è.



Tornando allo stato di New York, la giovane Victoria e i volontari, gente di tutte le classi sociali e di tutte le età impegnate nella campagna della Harris, sono un’altra prova che il partito non è fatto solo di leader. E le critiche di elitarismo radicato sulle coste dell’Atlantico e del Pacifico sono stantie come i commentatori che le ripropongono. C’è un altro libro pubblicato da poco che ci riporta alla realtà. Si chiama "Illiberal America" ed è di Steven Hahn, storico della New York University e vincitore del Pulitzer per la storia nel 2004 con il suo "A Nation Under Our Feet", sulle lotte dei neri nel sud rurale dalla schiavitù in poi. Se è possibile riassumere un libro di 447 pagine in poche parole, direi che Hahn ha scritto una storia sociale delle idee per spiegare come l’idea che l’America sia una democrazia liberale con ogni tanto qualche deviazione sia un mito delle origini inventato. Non c’è nulla di male nell’inventare tradizioni nazionali, lo fanno tutti, come ci ha insegnato Eric Hobsbawm. Pensiamo all’invenzione di “Italiani brava gente.” L’importante è capire invece cosa c’è di inventato in una tradizione che si presenta come fatto storico. Hahn sostiene che l’America illiberale è parte costitutiva della tradizione. È un’ America dei diritti non per tutti ma per comunità definite da razza, appartenenza etnica, religione e genere, un’America che accetta oltre alla democrazia anche l’autoritarismo, promuove la mobilitazione di massa e la repressione, permette al potere giudiziario di regolare comunità specifiche, e può legare individui e gruppi direttamente al potere di una persona. Con un DNA liberale e illiberale, l’America, dice Hahn, è storicamente un terreno di battaglia tra queste due idee della società, dove chi ha più coerentemente lottato per i diritti universali, la democrazia, e l’emancipazione di tutti senza distinzione economica, sociale o culturale, sono quelli a cui queste cose sono state negate.



Nelle presidenziali del 2024, è l’America illiberale che minaccia di vincere. Ci ho pensato domenica nel porta a porta in un’area rurale fuori Chatham, incontrando lavoratori agricoli, ceti medio bassi, e abitanti di un trailer park, o area occupata da prefabbricati mobili. Alcuni erano cortesi ma timidi, con bambini socievoli e carini, altri estroversi e disposti a chiacchierare con chi si presentava per chiedere il voto scusandosi del disturbo. Ma una donna uscita da uno dei prefabbricati mi ha investito di improperi, urlando che in quanto democratica andassi a lavorare con i senza tetto e aiutare i veterani. La violenza verbale e il risentimento di quella donna mi hanno colpito più che altro per essere così mal indirizzati, dato che solo le attuali politiche democratiche potrebbero darle qualche assistenza. Non l’ho vista come “forgotten,” dimenticata, ma come una rappresentante di quell’anima illiberale dell’America da sconfiggere a novembre, sconfitta che nel suo caso sarebbe una fortuna, anche se non lo sa.

*Anna Di Lellio insegna politica internazionale alla New York University. Da trent'anni segue le elezioni presidenziali americane e partecipa alle campagne del candidato democratico nelle attività di porta a porta.

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