Il tricolore è ammainato. Sulla collinetta che domina la baia di Argostoli il vento è assente. Il sole batte allo stesso ritmo delle cicale che friniscono tra gli alberi di ulivo sparsi ovunque. Lo scenario sembra leopardiano. Qui, però, non abita l’infinito né la quiete. Il silenzio al contrario è una premessa che conduce direttamente al dolore, alla disperazione. Fino all’ultimo ho pensato se recarmi in questo posto oppure no. Perché di fronte al dolore le reazioni di un essere umano possono essere soltanto due: affrontarlo o evitarlo. Alla fine ho deciso di andarci e per arrivare in questo punto di Argostoli sono stato costretto ad allontanarmi dal centro, imboccare varie rotonde, poi strade bruciate e pinete, fino all’immancabile serpentina di curve che mi ha portato in cima a questa collina. Un cancello aperto, un pavimento lastricato e in fondo il monumento.

Chi soggiorna ad Argostoli si imbatte in questo monumento ancor prima di arrivare sull’isola. Lo trovate ovunque: dall’aeroporto fino alle vie del centro. "Il monumento degli Italiani", così è indicato. Arrivarci è un’esperienza che afferra alla gola, prende le viscere, ti mette di fronte a tutti gli errori, e gli orrori, macabri della storia. È il monumento che ricorda, e commemora, l’eccidio di Cefalonia. Quasi diecimila soldati italiani, tra finanzieri e marinai della divisione "Acqui", che perirono per mano dei tedeschi all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre. Per esattezza dal 15 al 26 settembre 1943. Mi avvicino a passo lento. Il caldo mi stordisce ma non è solo quello. È come se avessi un piombo alle caviglie, qualcosa che mi impedisce non solo di muovermi ma che mi tira giù. D’istinto sento il bisogno di togliermi il cappello e di inginocchiarmi. Un timido segno di croce, una preghiera, e un ricordo per tanti fratelli che perirono in questo angolo di Grecia.

"È stato tutto inutile" sento dire alle mie spalle. Mi giro e protetto dai riflessi del sole intravedo la sagoma di un uomo. Più di sessant’anni, occhio e croce. Faccia abbronzata, una polo blu col colletto alzato, bermuda. Un vacanziero in piena regola. È in compagnia della moglie. Ha parcheggiato lo scooter sul ciglio della strada, dove si trova il cancelletto per entrare al monumento. Facciamo subito conversazione. Si chiama Ciro, è di Napoli, zona Sanità, ma vive a Bergamo con la moglie Cinzia da più di quarant’anni. Nel giro di un amen parliamo di antifascismo, quello di ieri e quello di oggi, di Kefalonia e della Grecia dove viene in vacanza da ventotto anni di seguito, degli anni ‘70, della militanza in Autonomia Operaia. Altri tempi, altra Italia. Mentre discorriamo vediamo passare qualcun altro davanti al monumento. Ma non si ferma. Forse per timidezza o più semplicemente per disinteresse. La storia siamo noi, canta De Gregori, e nessuno la può fermare. Anche se ce lo siamo dimenticati. Saluto Ciro. Ridiscendo la collinetta del monumento e al bivio mi colpisce un’altra indicazione. "La fossa dove vennero uccisi centocinquanta italiani della divisione Acqui". Il cancello è chiuso. Il posto si trova in una rientranza. Riesco a malapena a fare una foto dalla cancellata. Anche se la vista è interdetta riesco a intravedere una croce, forse una preghiera.

Riprendo la strada con il cuore in subbuglio. Per ritornare verso il centro di Argostoli costeggio tutta la baia. Il paesaggio cambia in fretta. Piste ciclabili e lungomare si alternano a pinete e ampi parcheggi sterrati. Nel punto più a nord della baia, dove Argostoli è quasi dirimpettaia della penisola di Lixouri, un cartello segnala i Katavothres, il fenomeno geologico per cui l’acqua marina entra da qui e rispunta nel lago di Melissani, a est dell’isola, e di cui abbiamo parlato. Mi fermo giusto pochi minuti per proseguire ancora più a nord. Un altro monumento. Stavolta di speranza e di bellezza. Un avamposto tra rocce e mare. Il faro di San Teodoro. Venne completamente raso al suolo dal terremoto che nei primi anni ‘50 spazzò via Argostoli e la sua fisionomia in stile veneziano. Il faro venne poi ricostruito seguendo in modo certosino il progetto originale della metà dell’800. Sembra di camminare in un’antica tholos micenea o, meglio ancora, tra i portici di una Stoà ateniese. Il bianco ferisce gli occhi per quanto è forte. La brezza che viene su dal mare calma l’animo e acquieta i pensieri. Il tramonto è quasi alle porte. In pochi chilometri Argostoli racchiude la disperazione e la rinascita. L’orrore e la bellezza. Mi siedo all’interno del portico. La schiena contro una delle colonne. Respiro la salsedine. Mi sento in pace, finalmente.
(4 – continua)