VEICOLI
ELETTRICI
LA GRANDE
IMPASSE

La notizia che la casa automobilistica tedesca VolksWagen sta considerando la chiusura di qualche stabilimento in Germania, con conseguente riduzione del personale, forse non ha preoccupato tanto l’italiano medio, ormai abituato a simili decisioni prese dai nostri produttori di auto e moto da decenni.

Che l’auto tradizionale sia un settore in crisi l’abbiamo toccato con mano a partire dal 2020, con l’arrivo della pandemia Covid19. I prezzi di una vettura nuova o usata, i costi dei ricambi e della manodopera per la manutenzione, l’aumento dei costi dei servizi associati e del carburante e le restrizioni alla circolazione nei centri abitati hanno, tutti insieme, portato i produttori a porsi domande sul proprio futuro.

A quanto pare, però, anche il veicolo elettrico, considerato il visionario fattore di rinascita, forse potrebbe essere l’ultima vite che serra il coperchio della bara.

Sebbene i costruttori siano in grado di costruire e/o assemblare un veicolo elettrico, come succede per i veicoli con motore a combustione, anche per quello elettrico non sono in grado di produrre il carburante necessario. In pratica, La VolksWagen (VW) costruisce l’auto; qualcun altro produce il carburante.

Similmente per l’auto elettrica.

Infatti il carburante è l’energia accumulata nelle batterie e la VW non produce né l’energia né la batteria. L’elettricità o è auto-prodotta dal veicolo oppure viene fornita dalla rete elettrica, mentre la batteria è composta prevalentemente da minerali, di cui la VW non dispone, assemblati con una tecnologia in continuo sviluppo, di cui, anch’essa, non dispone.

Le batterie devono essere fornite da chi le produce. Ma chi produce le batterie per le moderne auto elettriche?

Indovinato!

La Cina.

Ma se io fossi un operaio della catena di montaggio della VW (se per questo, anche della Mercedes o Stellantis o anche della Ford) non sarei preoccupato solo da chi fornirà la futura auto (elettrica o no) ma dall’uso futuro che nel mondo occidentale si farà dell’auto.

La cinese BYD, formidabile esempio di un produttore di auto verticalmente integrato, è in grado di produrre in casa ogni componente delle sue vetture, dal telaio alle centraline elettroniche, comprese le batterie.



Ogni paese che ha una propria industria automobilistica ha posto restrizioni alle importazioni di auto BYD (ma non solo) a tutela della propria industria. Anche la UE lo ha fatto e sulle vetture BYD grava un’imposta doganale attualmente del 17,4% (per altri produttori si arriva anche al 37,6%).

La prassi, collaudata da secoli, sappiamo che funziona secondo il principio “do ut des”; ma con la Cina il “do ut des” sconfina in una miriade di campi di applicazioni, essendo la Cina stessa un paese da cui si importa dalla vite di 1 millimetro necessaria per la serratura di casa al macchinario di svariate tonnellate necessario per montare una pala eolica.

Questo spiega perché, nonostante le restrizioni in funzione da tempo per l’importazione di auto da quel paese, la VW sia arrivata a prendere la decisione che ha preso.

E perché l’elettore americano che segue le campagne dei candidati alle prossime elezioni presidenziali dovrebbe essere interessato a questa notizia?

Sul sito istituzionale di UBER si legge a chiare lettere di un accordo appena siglato con BYD. Questo accordo ha il potenziale di cambiare il paradigma del mercato dell’auto, modificando il concetto di spostamento e di trasporto nei centri urbani. Per capirlo meglio, basta consultare il loro sito dove tutto è concentrato attorno all’idea di “click of a button”, ovvero al tocco di un pulsante, ma in una dimensione che va ben oltre il “car sharing” a cui anche noi italiani ci stiamo abituando.

Partendo dall’Europa e dall’America Latina, l’accordo è finalizzato ad offrire alla clientela che opera sulla piattaforma UBER prezzi e finanziamenti competitivi per l’acquisto di veicoli BYD, con il primo obiettivo di raggiungere 100mila vetture su strada. A seguire si intende entrare nei mercati del Medio Oriente, Canada, Australia e Nuova Zelanda.

BYD è il leader indiscusso nella produzione e vendita di veicoli elettrici (EV). Uber è il leader mondiale nei servizi “on demand” eseguiti con veicoli elettrici. A chi è transitato per San Francisco di recente è sicuramente capitato di incrociare un taxi senza guidatore, chiamato non alzando la mano all’angolo di una strada ma “cliccando” un’icona sul proprio cellulare. Oppure si è visto consegnare una pizza da una micro-car elettrica che si è fermata davanti alla porta di casa e con voce metallica ha richiesto di avvicinare il cellulare al lettore situato su fianco del veicolo.

Una delle tecniche di marketing usate dalle case automobilistiche è “mettere veicoli sulle strade”, in modo che la visibilità su strada abbinata a campagne pubblicitarie mirate supporti la creazione della domanda.

Con questo accordo la BYD fa un passo senza precedenti poiché Uber (dati sempre dal sito) ha compiuto, dalla sua nascita nel 2010, ben 49 miliardi di trasporti prevalentemente di persone, realizzando la missione di “avvicinare le persone a dove vogliono essere.”

Non c’è campagna pubblicitaria che possa raggiungere in modo altrettanto efficace un cliente potenziale.

Con i costi di possesso di un’auto in costante aumento (negli USA ma anche in Italia ad esempio) un veicolo “low cost” cinese potrebbe soddisfare quella parte di popolazione che per motivi economici ha dovuto rinunciare a possedere una propria auto. Nel contempo però potrebbe essere il volano per una transizione ecologica di spostamento verso una flotta “green.”



Tutto sta a decidere chi deve pagare. Perché in entrambi i casi è probabile che la decisione della VW sia solo la prima di una lunga serie, non solo in Germania e non solo grazie alla BYD.

Tant’è che uno dei maggiori produttori di batterie in uso di veicoli elettrici è una società anche essa cinese (CATL), e ha appena siglato un accordo con l’americana TESLA per la costruzione di uno stabilimento nello stato del Nevada. Se da un lato questo potenzierebbe Tesla nelle vendite di veicoli elettrici a prezzi minori, rappresenterebbe di sicuro una minaccia per gli altri produttori (americani e non). Infatti sono già state presentate richieste per includere la CATL in una lista nera appellandosi alla NDAA (National Defense Authorization Act) che impedisce a qualunque azienda in rapporti con il Governo Federale di vendere nei mercati USA. E la richiesta è presentata per motivi di “sicurezza nazionale”.

Le conseguenze per l’industria sarebbero del tutto imprevedibili. Nel caso di Tesla vorrebbe dire l’immediato blocco dell’iniziativa con conseguenze in termini di occupazione e investimenti. A seguire, anche gli altri produttori verrebbero coinvolti considerando che, mentre il 50% delle esportazioni di CATL vanno negli USA, un 25% prende la strada della Germania, seguita dall’Olanda e Polonia. Una simile sanzione, sebbene non diretta a questi paesi, impedirebbe la vendita di auto di questi paesi negli USA, sia che siano prodotti negli USA che altrove.

Si pone così una moderna versione del dilemma dell’uovo o la gallina: il veicolo elettrico si, ma a quale costo?

(5. continua)


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