Nukus è situata a pochi chilometri dal confine turkmeno. Siamo nella vasta Repubblica autonoma del Karakalpakstan, parte nord-occidentale dell’Uzbekistan, ricca di gruppi etnici e con una storia tutta sua – sulla quale torneremo.
Nukus è la capitale amministrativa e importante snodo di comunicazione della regione, e, insieme con Moynak, è la città che più ha sofferto le devastanti conseguenze del prosciugamento del Lago di Aral. La cittadina, fatta di grandi viali senza un vero centro, ha una struttura architettonica tipicamente sovietica con edifici brutti, squadrati e impersonali.
Si viene a Nukus per due ragioni: una visita in memoria del lago d’Aral e di quel che ne rimane con i fantasmi arrugginiti e disfatti di barche in secco nel deserto, e per scoprire l’incredibile gioiello del Museo d’Arte Igor Savitsky, il “Louvre delle steppe”, come è stato definito da una rivista francese.
Il Museo, votato nel 2009 dal New York Times come uno dei 29 luoghi più incredibili del pianeta, ospita la seconda più grande collezione al mondo di arte sovietica d’avanguardia dopo il Museo di San Pietroburgo. Nel suo complesso, ospita circa 82.000 oggetti tra cimeli, reperti di artigianato locale, dipinti; i due piani della parte nuova ospitano arte karakalpaka e reperti archeologici della civiltà Khorezm nonché dipinti russi e uzbeki dei pittori d’avanguardia di inizio secolo scorso, i quadri “proibiti”. Tutto questo è dovuto a Igor Savitsky, uomo di grande talento, dalla personalità eclettica e originale, nonché pittore, archeologo, collezionista, fondatore e primo curatore del Museo. La collezione da lui raccolta ha ricevuto, fin dagli anni ’80, grande considerazione e apprezzamenti da parte di storici dell’arte sovietici, specialisti e appassionati d’arte internazionali.
John Bowlt, del Dipartimento di Lingue e Letterature slave dell’Università della California del Sud, ha commentato: “….una grande esposizione…sarebbe non solo motivo di un non comune piacere visivo, ma ci costringe anche a riconsiderare opinioni consolidate in merito alla storia dell’arte russa e sovietica vista nel suo contesto internazionale…”
Charlotte Douglas, Dipartimento di ricerche russe e slave della Università di New York ha detto: “…sono del parere che la collezione Savitsky sia, a livello mondiale, la raccolta unitaria più rappresentativa dell’arte russa e sovietica del periodo che va dagli anni ’20 agli anni ’40 del Novecento. Le opere della collezione Savitsky diventeranno....la base per una riconsiderazione della storia dell’arte russa e sovietica.” Come ebbe a commentare la direttrice stessa del Museo, “…la vera arte è sempre più forte delle circostanze ed è in grado di trovare la strada per arrivare al cuore dell’uomo.
Stranamente questa regione geografica ha acquisito notorietà per due ragioni opposte: la catastrofe ecologica del lago di Aral e il Museo definito “miracolo del deserto”. Un miracolo voluto da Savitsky, che si è realizzato attraverso vicende complesse e difficili, e che rappresenta insieme lo sviluppo dell’arte figurativa del Karakalpakstan, dell’Uzbekistan, della Russia e dell’ex-Unione Sovietica.
Savitskij, che aveva studiato arte, disegnava e dipingeva, era anche membro dell’Unione degli artisti dell’URSS, aveva compiuto diversi viaggi in Uzbekistan seguendo spedizioni archeologiche negli anni Cinquanta ed ebbe modo di visitare i villaggi karakalpaki raccogliendo esemplari dell’arte applicata e studiando i manufatti. L’attività lo prese sempre più, inducendolo a riflettere sulla vita e sull’arte di un piccolo popolo che viveva in mezzo al deserto. Alla fine, decise di trasferirsi da Mosca a Nukus e nel 1956 cominciò a lavorare come ricercatore presso l’Istituto di ricerca scientifica del Karakalpakstan.
Lavorava, studiava, raccoglieva manufatti e stringeva amicizia con artisti famosi, esponenti locali, pittori, archeologi. Nel 1961 organizza una mostra dedicata all’arte karakalpaka nell’ambito del Congresso mondiale degli orientalisti presso l’Università di Mosca. Il successo fu immediato e totale, ma la creazione di un Museo locale diventava sempre più urgente. Finalmente nel 1966 il Museo delle Arti apre le porte e Savitskij ne diventa il Direttore restando in carica fino al 1984, anno della sua morte.
La storia del Museo e il lavoro di Savitskij, divenuto collezionista appassionato, rappresentano il tessuto connettivo del “miracolo”: raccoglieva opere degli artisti dell’Asia Centrale e della scuola Uzbeka, per poi iniziare una delicata missione e cioè la raccolta delle opere di artisti dell’avanguardia russa degli anni Venti e Trenta, banditi dal socialismo sovietico, perseguitati, o inviati nei campi di concentramento. Savitsky correva continuamente il rischio di venire denunciato come “nemico del popolo” quando, verso la fine degli anni Sessanta, viaggiava continuamente tra Mosca e Nukus trasportando in treno grandi quantità di opere bandite dal regime. Molte opere erano dono degli stessi autori e altre venivano acquistate con i fondi del governo karakalpaka.
Nella sua raccolta figurano tele appartenenti al periodo 1910-1930, autentica “avanguardia” quando l’arte russa ricercava attivamente nuove forme e nuovi linguaggi. Principi ai quali si richiamarono anche artisti degli anni successivi.
Un elemento importante che non può sfuggire al visitatore è il notevole numero di quadri dove viene raffigurata l’acqua: il lago, il mare, le barche, i pescherecci, gli uomini al lavoro o in contemplazione dell’acqua. Si chiama “memoria dell’acqua”, una sorta di mostra nella mostra nata dal lavoro di otto artisti in particolare, vissuti in momenti diversi e con stili diversi, uniti dal tema dell’acqua, infinita fonte di ispirazione, attratti dal mare di Aral e dai fiumi Amu Darya e Syr Darya “Big Water”, che sono stati parte integrante delle loro vite.
Nel 1981 il Circolo degli storici dell’arte della Unione degli Artisti di Mosca organizzò una serata “in onore del Museo di Nukus” che certamente ne accrebbe la fama. Al contempo la strada di Savitskij non fu mai esente da ostacoli: indagini e inchieste che volevano solo ostacolare la sua attività, impietosi attacchi di critici d’arte, storici e funzionari addetti al settore. Negli Archivi del Museo sono conservate lettere e documenti che fanno riferimento alla sua presunta “attività illegale”, tuttavia sanzioni vere e proprie non vennero mai adottate nei confronti di Savitskij, spesso malato e ricoverato in ospedale così di frequente che la sua stanza era diventata un secondo studio con l’aiuto dei medici curanti. Spirito indomabile, scherzava con ironia sulle sue “disavventure” quando doveva spiegare ai dirigenti moscoviti per quali ragioni i suoi collaboratori non avevano preso parte alle annuali campagne di raccolta del cotone….
Uomo appassionato e determinato, conseguì risultati molto significativi nella tutela e nella conservazione della cultura e dell’arte russa; morì nel 1984, sepolto a Nukus, lasciando vuoto e cordoglio. Le opere raccolte meriterebbero molte pagine di commento circa i diversi anni e momenti della loro “nascita”, su contenuti e significati, sugli artisti. Esiste comunque un prezioso catalogo della mostra che ha avuto luogo quest’ anno nelle due sedi di Firenze, Palazzo Pitti, e di Venezia, Ca’Foscari, edito da Electa, “Uzbekistan l’Avanguardia nel deserto” a cura di Giuseppe Barbieri e Silvia Burini che è una finestra aperta sulla galassia di artisti e opere presenti in questa occasione.
Come già detto, l’altra ragione per la quale si viene a Nukus è per raggiungere i luoghi dove, una volta, c’era il Mare di Aral. Una esperienza tristemente unica.
Da Nukus si raggiunge Moynak, 210 chilometri a nord, dove, ai primi anni Ottanta, esisteva un vivace e attivo porto sul lago con prospere attività commerciali legate al mercato ittico e alla esportazione del pesce e di altri generi alimentari. Fino a circa trenta anni fa, forse più, circa 10.000 pescatori lavoravano al porto affollato di pescherecci che partivano la notte per rientrare all’alba carichi di pesce e pronti a scaricare la merce nei mercati locali. Moynak era anche un piacevole luogo di villeggiatura, con un clima piacevole, frequentato dai russi benestanti che attraversavano il lago con una crociera….
Oggi arrivando a Moynak si incontra il vuoto e l’abbandono sottolineato dai vecchi cartelloni pubblicitari, da negozi chiusi sormontati da insegne arrugginite. I pochi abitanti di questa città fantasma non amano dare indicazioni a chi viene qui per vedere uno spettacolo di depressione che diventa cimiteriale di fronte ai pescherecci arenati sulla sabbia, ai resti del porto e dei moli una volta fitti di navi e di barche.
Chi lo desideri può aggirarsi tra le carcasse in un deserto di sabbia o tra i resti dell’area industriale, le fabbriche dove si confezionavano i generi alimentari e che erano tra le più grandi dell’impero sovietico. Esiste anche un museo cittadino che contiene fotografie in bianco e nero della cittadina di una volta…. Se poi si vuole vedere il mare, o quel che ne resta, si devono percorrere circa ottanta chilometri di piste sabbiose per raggiungere le sponde del lago acquitrinose e senza vita.
Una breve storia della regione chiamata Karakalpakstan racconta che qui vivono diversi gruppi etnici: karakalpaki (uomini dal cappello nero), uzbeki e turkmeni e una comunità di cosacchi di origini russe.
Il territorio è desertico, come si è capito, occupato in larga misura dal deserto del Kizilkum (deserto rosso) e quanto al clima estremo, assai cambiato in trenta anni, si va da -/+ 50 gradi, gelido d’inverno e torrido d’estate.
La zona è tristemente famosa per uno dei più impressionanti disastri ambientali prodotti dall’uomo, che hanno determinato appunto l’arretramento e la graduale scomparsa del Lago d’Aral, chiamato anche mare d’Aral per la sua immensità, e anche dei fiumi Amu Darya e Syr Darya le cui acque sono sotto i livelli minimi necessari al fabbisogno locale. Oggi la regione vive di una economia di ripiego, sfruttando terreni poveri e salini, coltivando meloni, riso e, ovviamente, cotone.
Cotone, appunto. Il “fenomeno” che ha fatto, in gran parte, la storia dell’Uzbekistan negli anni ’60-’80, è stato lo sviluppo intensivo della raccolta dell’“oro bianco”, ordinata da Mosca come parte della specializzazione delle repubbliche sovietiche. L’obiettivo era la produzione di 6 milioni di tonnellate di cotone, ma la gara innescata per ottenere rendimenti, le irrigazioni massicce necessarie al cotone, il drenaggio accelerato delle risorse dei fiumi, l’uso di fertilizzanti chimici che hanno avvelenato terra ed acque, hanno avuto un impatto catastrofico sulla ecologia del luogo e portato al prosciugamento del lago d’Aral che si è ridotto della metà in quaranta anni, mentre le attività di pesca sono andate tutte distrutte con un disastroso impoverimento degli abitanti.
Molte sono state le conseguenze di questi eventi. Dopo il 1980 per rispondere alle pressioni di Mosca i governanti uzbeki hanno inventato un sistema di falsificazioni circa i numeri della produzione. Corruzione chiama corruzione e lo “scandalo del cotone” alla fine venne scoperto e l’intero apparato statale uzbeko venne sostituito avendo comunque già intascato considerevoli profitti. Per contro, i milioni di poveri sfruttati che negli anni avevano lavorato con paghe inesistenti, tutti coltivatori delle zone interessate, sono diventati le persone più povere della società.
Dai rapporti dell’International Crisis Group emerge che la monocultura del cotone è la più distruttiva in assoluto, peggiore delle tonnellate di eroina che transitano nell’Asia Centrale. Ma mentre la comunità internazionale ha investito milioni di dollari nei programmi antidroga, poco e niente è stato fatto per fermare gli effetti negativi della industria del cotone, tentando una riforma della industria stessa, affrontando il problema della povertà.
Sembra comunque che dal 2017 in Uzbekistan, insieme con la ONG Cotton Campaign, il governo abbia promosso un programma di riforme per eliminare il lavoro forzato e le quote di produzione, aumentando i salari dei lavoratori.
Sono pochi i turisti che si avventurano in questa parte dell’Uzbekistan piuttosto distante dalle tappe tradizionali, eppure c’è tanto da scoprire; è l’altro lato della medaglia, quello del paese che non è sotto i riflettori, più povero, vittima di un disastro ambientale, sociale ed economico, ma che può regalare la meraviglia del Museo Savitskij. Tutto è parte della stessa storia anche se Tamerlano non è giunto sin qui. Il mio augurio, e di tutti coloro che si sono spinti a curiosare un po' più a nord, è che il turismo apra quest’altra finestra affacciata su un’altra storia, arte e cultura.
(7. continua)