CAMBOGIA
ANGKOR
E LA FORESTA
DI PIETRA

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Partiamo come al solito molto presto. La nuova guida si chiama Vanna (non Vanna Marchi, tiene a precisare). Sappiamo che oggi al nostro gruppo si uniranno quattro persone che alloggiano nel nostro Hotel. Le conosciamo in bus: sono di Roma, Andrea, Francesca e le figlie Ginevra e Anastasia. Un altro colpo di fortuna. Leghiamo subito, con la stessa rapidità con la quale ci siamo trovati bene con gli altri. Oltre al viaggio abbiamo in comune molti interessi, modi di pensare e di agire che rendono immediatamente piacevole lo stare insieme e condividere emozioni, riflessioni e, perché no, qualche risata. Confessiamo a Francesca che siamo molto sollevati, perché temevamo che i nuovi arrivati potessero guastare l’armonia del gruppo. Lei con un sorriso ci rivela di aver avuto la stessa apprensione: compagni di viaggio sbagliati possono rovinarti le giornate più belle. Includiamo Andrea e Francesca nella nostra chat whatsapp (“Gli Idrovolati”) e confesso che mi dispiace non averli avuti con noi fin dall’inizio del viaggio. Loro hanno fatto un giro diverso: sono stati ad Hanoi e dopo Siem Reap voleranno a Saigon. Anche i giovani del gruppo legano velocemente e con questa nuova squadra partiamo per la foresta pietrificata di Angkor.


(Il re lebbroso)


Prima di cominciare a raccontare dei due giorni di visita al sito archeologico più importante della Cambogia e forse del Sud Est Asiatico, sono costretto ad alzare la mano e riconoscere i miei limiti: non ho, e non credo che avrò mai, le competenze storiche, architettoniche, artistiche e religiose necessarie per apprezzare nella misura dovuta questo immenso patrimonio culturale (non a caso considerato patrimonio dell’umanità). Dovrete accontentarvi del mio naso per aria, delle mie foto da turista accaldato (magari userò quelle di Lori che sono più belle) e di qualche spiegazione di Vanna che non ho ancora dimenticato. Del resto in un giorno e mezzo abbiamo visitato nove siti archeologici, alcuni enormi, in cui si sono sovrapposte, anche più volte nel tempo, arte buddista e induista. Dalle spiegazioni di Vanna posso anticipare che i buddisti erano tolleranti e conservavano le opere d’arte induiste, gli induisti al contrario tendevano a cancellare le tracce del buddismo, quanto meno decapitando le statue dei poveri Budda.


(Pre Rup)


Quanto alla storia, la civiltà di Angkor fiorì tra il IX e il XV secolo e qui s’insediò la capitale del grande impero Khmer, che s’estendeva fino alla foce del Mekong, nell’attuale Vietnam. Varie sono le ipotesi degli studiosi per spiegare il declino della zona e lo spostamento della capitale verso Phnom Penh. Forse problemi climatici, o le guerre con i Thai e i Cham, o la difficoltà di difendere un territorio esposto e pianeggiante. Sta di fatto che i luoghi furono abbandonati per secoli e la foresta si impossessò dei monumenti dando luogo allo stupefacente spettacolo di arte e natura che oggi si presenta ai visitatori, grazie anche ai restauri avviati dai francesi nel secolo scorso.


(Mebon Est)


Vanna ci accompagna a fare un pass con tanto di foto per l’accesso ai templi, poi visitiamo nell’ordine Prasat Kravan (tempio induista in mattoni rossi e cinque torri), il tempio Pre Rup (che significa corpo girato, probabilmente usato per le cremazioni e costruito in mattoni e arenaria all’incirca nel X secolo: una discreta fatica sui gradini), il tempio Mebon Est (tempio Shivaita: Shiva era quello cattivo, il distruttore, Brahma il creatore e Vishnu il conservatore; il tempio risale al X secolo, è allineato con il Pre Rup sull’asse Nord-Sud e con Angkor Thom sull’asse est-ovest, impressionante il bassorilievo sull’architrave), Ta Som (tempio buddista minore del XII secolo), Neak Poan (piccolo tempio buddista, posto su un isolotto al centro di un laghetto artificiale al quale arriviamo attraverso una bellissima passeggiata su passerelle di legno che attraversano un bacino sul quale galleggiano fiori di loto e ninfee), Preah Khan (tempio del XII secolo e probabile residenza reale dall’imponente ingresso ornato di gigantesche statue decapitate che sembrano trascinare un enorme serpente).


(Preah Khan)


Giriamo tra le rovine un po’ confusi dalla grandiosità di quello che vediamo. Più di ogni altra cosa mi colpisce il connubio tra le meraviglie dell’arte scultorea e architettonica, che persino la mia ignoranza mi permette di apprezzare, e la natura, che prepotente insinua tra le costruzioni le gigantesche radici di alberi secolari, sempreverdi, alti più di quaranta metri, che Vanna definisce l’albero del formaggio (ma nel web lo trovo definito Tetrameles Nudiflora), il ficus strangolatore, l’albero della resina. Una natura, questa della giungla intenta a sopraffare l’antica città, non meno monumentale degli antichi edifici che ammiriamo.


(Il ficus strangolatore)


Dopo il pranzo consumato in allegria con i nostri amici riprendiamo le visite dal Banteay Kdei, un tempio buddista che mi sembra molto simile, anche se più piccolo, a Preah Khan.


(Un Buddha decapitato)


Mentre ci accingiamo a scendere dal bus per visitare l’ultimo tempio della giornata un improvviso acquazzone ci blocca. Solo Marilia e i ragazzi sono abbastanza coraggiosi da affrontare, protetti da piccoli ombrelli forniti da Vanna, le ire del meteo. Noi, col resto della truppa, preferiamo aspettare in mini bus. Tornano zuppi e, nonostante qualche voce dissenziente, abbiamo l’impressione che potendo tornare indietro non sarebbero scesi dal bus.


(Il gruppo)


Dopo la necessaria doccia in hotel contatto il mio amico Tuk Tuk numero dieci e gli faccio organizzare una squadriglia di tre mezzi, di cui uno extra large per la famiglia di Antonio. Il nostro autista si offre di prenotarci al ristorante che abbiamo scelto su Trip Advisor. Per me e Mujer è l’ultima serata: partiamo domani dopo l’escursione, col volo delle 19.30 per Bangkok e poi le coincidenze per Doha e Roma. Massimo e Lori e la famiglia di Antonio partiranno, pure per Bangkok il giorno successivo, così come la famiglia di Andrea, che però è diretta a Saigon. Il Sokkhak River Lounge è un locale un po’ più ricercato: va benissimo per una cena di saluto.


(TA Prohm)


Tuk Tuk n. 10 (che ormai, come mi sfotte Antonio, sta sul mio stato di famiglia) e suoi colleghi ci riportano ai nostri alberghi. Per me e Mujer la giornata di domani sarà impegnativa. Colpo di scena di fine giornata. Quando anticipo agli amici la mia intenzione di raccontare questo viaggio ai lettori di Foglieviaggi Andrea spalanca gli occhi sorpreso ed esclama: "Non ci posso credere! Conosci Vittorio Ragone!". Insomma scopriamo che abbiamo in comune l’amicizia col nostro boss, e che Andrea è un lettore di Foglieviaggi. Il mondo è proprio piccolo!


(TA Prohm)


Al mattino lasciamo i bagagli in albergo. Abbiamo negoziato un extra per tenere la camera fino alle quattro e avere il tempo di una doccia e un cambio dopo l’escursione.

Si aggiungono al gruppo altre cinque persone: una coppia di giovani sposi originari di Frosinone ma trapiantati in Emilia, e tre giovanotti emiliani che non esito a definire poco socievoli. Con loro non scatta la scintilla.


(Angkor Vat)


Andiamo a esplorare le maggiori attrazioni di Angkor: Ta Prohm, il tempio in cui si può ammirare, più che in qualunque altro luogo di Angkor, il perfetto matrimonio tra la giungla e l’arte Khmer; Angkor Vat, costruito in arenaria, simbolo della Cambogia (appare anche sulla bandiera), probabilmente il più grande monumento religioso del mondo, fu originariamente concepito come tempio dedicato a Vishnu e poi gradualmente trasformato in tempio buddista. Angkor Vat non lascia indifferenti i visitatori: colpiscono da un lato la grandiosità dell’opera, dall’altro la minuziosa arte scalpellina dei bassorilievi. Angkor Thom, la Grande Città, il complesso fortificato, protetto da un fossato (così come del resto Angkor Vat), che contiene al centro il Bayon, tempio dalle numerose torri e dai bellissimi bassorilievi che rappresentano la battaglia sul Tonle Sap tra Khmer e Cham. Intorno al Bayon l’antico palazzo reale con la Terrazza degli elefanti e la Terrazza del Re Lebbroso.


(Il furto degli occhiali)


L’ultima emozione ce la regala una dispettosa scimmietta, membro della numerosa colonia che vive nella foresta di fronte ad Angkor Vat. Più sfrontata delle altre si arrampica sullo zainetto alle spalle di Mujer e le ruba gli occhiali da vista. Mujer si dispera perché è piuttosto cecata e s’è pure intestardita, in barba ai miei suggerimenti, a non portarne un secondo paio. Io pure mi dispero, in primis perché so che per questo litigheremo (“io sono quello del 'non si sa mai', lei quella dell’'andrà tutto bene' – non a caso gli amici ci chiamano 'Sandra e Raimondo'), ma francamente anche perché quantifico il danno in circa 500 euro (in realtà sarebbero stati 700).

La scimmia si arrampica rapidissima su un albero, ma a metà ascesa si distrae e perde la refurtiva, il che significa che le lenti fanno un volo di almeno una decina di metri. Corriamo a recuperare il maltolto ma lei, la scimmia, è più svelta, riprende gli occhiali e scappa via. A questo punto entra in azione l’eroico Vanna che parte all’inseguimento brandendo una fionda, naturalmente scarica. L’innocua arma evidentemente spaventa l’animale e lo induce a mollare la preda. Vanna recupera gli occhiali e Mujer può constatare sollevata che, miracolosamente, non hanno un graffio. Siamo tutti contenti, e io mi godo il risparmio di soldi e questioni.


(La terrazza degli elefanti)


Lasciamo il complesso attraverso la monumentale porta meridionale, Tonle Om, presso la quale scattiamo un’ultima foto.

Per me e Mujer il viaggio termina qui. Una macchina viene a prenderci e ci separa dai nostri amici che proseguono per il pranzo e per le attività del pomeriggio. Ci salutiamo con un pizzico di commozione: sappiamo tutti che, al di là delle promesse e delle sincere intenzioni di rivedersi presto e magari di progettare qualche nuovo viaggio insieme, non sarà facile, quando saremo tornati alla nostra routine, riuscire a combinare anche una semplice cena insieme, a Lecce, a Caserta, a Sorrento o a Roma.


(Il Bayon)


Mujer e io torniamo in albergo e ci prepariamo per il lungo rientro. Rifletto che dalle vacanze non si torna mai volentieri, ma dai viaggi sì. Dopo un’esperienza così intensa hai bisogno di tornare a casa e ruminare quello che hai fatto, che hai visto, che hai pensato, che hai provato, che hai sentito, che hai assaggiato. Hai bisogno di fermarti, perché la vacanza è sosta, ma il viaggio è movimento. Un buon modo di ruminare è stato scrivere questo lungo racconto.

Quanto al nostro ritorno è andato senza intoppi fino a Roma, dove la mia macchina, quella che avrebbe dovuto portarci a casa, s’è messa in sciopero e ancora fa i capricci in officina.


(Il Neak Poan)


Durante le oltre venti ore in giro per aerei e aeroporti i messaggi sulla chat degli “Idrovolati” sono continuati senza sosta, per condividere notizie, foto, informazioni. Ora siamo tutti a casa, tornati alle nostre abitudini e occupazioni. Ma il messaggio più inaspettato e gradito me lo ha inviato, mentre eravamo a Doha in attesa del volo per Roma, il mio amico Tuk Tuk n. 10, quello dello stato di famiglia:

"Hello Sir. Good morning from Siem Reap Combodia. Now you are in your country already"

"Not yet. In Doha now"

"Okay. Good luck"

"Good luck to you as well"

"You too. Have a nice trip"

Fosse stato lì l’avrei abbracciato. E pensare che non so nemmeno come si chiama.

(8. FINE)

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